Avanzare digerendo. Come cambia la lingua

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estratto dal capitolo La città immaginata del libro Lo stato della città. Napoli e la sua area metropolitana (a cura di Luca Rossomando)

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Mai possibile che per avanzare debba inevitabilmente morire qualcuno?
Me lo chiedevo osservando gli schizzi di sangue dei moscerini schiacciati sul parabrezza del bus che a centocinquanta all’ora, su una deserta autostrada del Sole, mi scarrozzava da sud a nord, qualche tempo fa. Mi risposero i tergicristalli, con uno uno stridulo Siiiiiiì, radunando con spazzole malandate la poltiglia di ogni dubbio.
L’assurdo di certi pensieri consente al tempo di scivolare, così, un attimo dopo ero a Milano. Sbrigate le mie cose me ne andavo camminando senza meta fino a quando un’affiche mi segnala che la compagnia teatrale napoletana Punta Corsara, proprio in quei giorni, mette in scena Hamlet Travestie, mescolanza di una riscrittura settecentesca dell’Amleto con il Don Fausto di Antonio Petito. Decido di andarci la sera stessa.
Nei dieci minuti che precedono l’inizio dello spettacolo, quando regnano gli sguardi curiosi tra spettatori sconosciuti e le chiacchiere a voce troppo alta degli habitué, mi chiedevo – rapito dalla cadenza nordica dei presenti e, soprattutto, conoscendo i lavori precedenti della compagnia –, ma capiranno mai qualcosa? Temevo che gli attori avrebbero in qualche modo semplificato il testo, italianizzandolo, affinché un pubblico non napoletano potesse comprendere. Per fortuna mi sbagliavo. Sotto una sapiente regia che mescolava ad arte tono, ritmo, suono&senso (li scrivo legati a scanso di equivoci), era evidente che le barriere strettamente linguistiche si aprivano lasciando entrare il pubblico in stretta confidenza con i personaggi della rappresentazione. Quello che gli spettatori magari avevano perso in significato letterale delle parole lo avevano recuperato in termini di musicalità o di azione corporea, in una sorta di autoregolamentazione solo all’apparenza automatica, ma, di fatto, controllata da chi con sapienza aveva manovrato i fili, invisibili e necessari, dello spettacolo.
La comprensibilità in arte, si sa, è sempre stato un falso problema. Tant’è che il nostro maggior artista, Enzo Moscato, scrittore e interprete di eccezionali partiture teatrali, tra i pochi a saper dar corpo (anche tipografico) alla voce, nulla concede all’addomesticamento linguistico che la visibilità – mito abusivo contemporaneo – esige con forza. Anzi, facendo cortocircuitare la lingua napoletana (da Vico al vicolo) col francese, il latino, l’inglese dei drammi scespiriani, Moscato, pur correndo all’apparenza il rischio della marginalizzazione, serenamente aderisce ai propri intenti e, di replica in replica, compie una liturgia che dal buio della scena lascia riaffiorare un barlume, fiammella fioca forse, eppure sacra. Un rito per pochi, si dirà: ma non erano uno sparuto gruppetto anche i primi cristiani?

Il tradimento dei rapper
L’imminenza di una rivelazione, il momento germinale della vita e l’ultimo respiro del moribondo, la vita nel suo farsi e disfarsi insomma, dovrebbero essere il centro propulsore di ogni “fatto” artistico. Invece da più parti ci si è schierati con la comunicazione, svilendo quell’ambizione a farsi musica di tutto il resto delle arti. E questo non tanto per tramutarsi in pura forma, ma soprattutto perché ogni “orchestrazione”, perseguendo i propri fini non può non tenere bene a mente i suoi specifici mezzi.
Anche per questo le derive soliste (o solipsiste) del duo rap dei Co’ Sang suonano stonate. Poco dopo il loro secondo disco ‘A vita bona e prima dello scioglimento, li intervistammo per il numero 38 di Napoli Monitor. Una lunga e intensa chiacchierata che, a prestar bene orecchio, già lasciava udire gli scricchiolii sotterranei delle fondamenta del gruppo. Ci dissero che il loro terzo disco si sarebbe dovuto chiamare Due napoletani in Italia. Il desiderio di poter catturare una fetta di pubblico sempre maggiore ha finito con lo spingerli a scrivere testi che in definitiva si parlano addosso, sostituendo il loro necessario sguardo sulla città verso la più conformista delle autocelebrazioni.
“La nostra lingua l’hai sentita nelle rapine”, dicevano in uno dei tanti pezzi usciti tra il primo e il secondo album. O ancora: “La ricerca del gergo è la ricetta”. Ed era vero.
A differenza di quanto avviene nella maggior parte della produzione culturale cittadina – dove il dialetto, quando non è lingua morta, è mortificata, esasperata quando arranca dietro al popolo, eduardiana fuori tempo massimo – nella ricerca di ‘Nto e Luchè, le due voci del gruppo, la lingua era molto elaborata. Il risultato poi, poteva piacere o no, ma erano indiscutibili la precisa sezionatura chirurgica, il rimontaggio, la riorganizzazione metaforica e sonora (“è ‘na casbah cca ‘bbascio”). Un lavorìo tutto teso alla costruzione di immagini efficaci, rapide, condensate. E la sintesi sembrava essere il dono migliore di questa lingua poetica. Le migliaia di pagine scritte in quegli anni sulla faida di Scampia non rendevano l’idea come Amic Nemic, che in quattro minuti ti scaraventava senza filtri in un contesto che nonostante (o forse a causa de) l’iper-esposizione mediatica resta ancora sconosciuto ai più, come ci ricordava anche il brano Nun saje niente ’e me.
La svolta però, non è avvenuta – come spesso si è detto –  con l’inizio di un uso sempre maggiore dell’italiano, ma sembra essere piuttosto figlia di un travolgente successo e dell’ambizione di conquistare un pubblico sempre più esteso (e a sua volta sempre più invasivo); questo ha fatto sì che i Co’ Sang finissero, magari inconsapevolmente, con l’accontentare la platea. Adesso, entrambi si trascinano, chi da una parte chi dall’altra, sfornando un pezzo in napoletano e uno in italiano, spesso mischiando per non deludere nessuno, moltiplicando like e condivisioni. Indifferentemente dalla lingua, però, quello che è venuto a mancare è l’aderenza alle cose. Luché in molte interviste afferma – a giusta ragione – che le persone si evolvono, e che raccontare ancora del suo quartiere quando adesso vive altrove, gli risulterebbe una recita. Non fa una piega, solo che questo altrove di cui molto spesso ci raccontano è l’istantanea, diciamo pure l’Instagram, di una scena musicale con una quantità di “filtri” così spessa da risultare opaca.
Quest’altrove non si fa mai aldilà e la recherche ha ceduto serenamente il posto al refrain. Se ancora si stampano dischi è solo per dare un supporto cartaceo agli autografi. Quando tutto sembra essere propedeutico allo show business e all’acquisizione di sempre maggior pubblico, il rammarico più grande è che, nel momento stesso in cui finalmente i ragazzini che ascoltavano scadentissima musica melodica napoletana hanno iniziato a prestare orecchio a quello che con forza stavano provando a dire i rapper, questi ultimi, irresponsabilmente, hanno tradito quell’inconsapevole spirito pedagogico di cui il rap in un modo o nell’altro si faceva – alla lettera – portavoce. Non che i ragazzi di strada adesso non li ascoltino più, anzi. Solo che adesso vengono accontentati e assecondati più che stimolati.
Facendosi olio laddove era sabbia gran parte della scena rap ha lasciato che l’ingranaggio finisse – neanche troppo lentamente – con il fagocitarla. Un processo di assorbimento ben collaudato che in fin dei conti non lascia scampo neanche ai pochi che con i denti difendono la propria solitudine, provando sinceramente a continuare le loro ricerche (che siano rime, teatro, cinema o altro, poco conta). Forse è proprio quando iniziano a capirti che il momento di cambiare lingua è arrivato. Al di là di ogni snobismo, anzi, per moltiplicare gli alfabeti e ridare il sapore dell’abisso allo scarto tra intenzioni e azioni. Nota dai margini: fallire, mancare, venir meno, con gioia.
Eppure, sostituendosi (o sempre più spesso mischiandosi) ai pezzi melodici, molti rap partenopei restano una testimonianza in presa diretta dell’impero dei segni nel quale sguazziamo: “Depilàti sulle braccia, tatuàti pure in faccia, infatuàti, a caccia di donne volgari”; oppure: “L’ego ci ha reso ciechi”; o ancora: “Vado pazzo per il matto satinato, monoposto, dieci metri, cabinato”. Quello che a prima vista è il trionfo dell’immaginario berlusconiano, se solo allargassimo lo sguardo potremmo decifrarlo come una sbiadita copia del sogno/incubo americano: darsi arie senza poter volare. Esercitando un fascino (soprattutto verso gli adolescenti) che è fascismo contemporaneo, in effetti, queste narrazioni degli anni Dieci, danno voce a un desiderio diffuso: l’ambizione più o meno trasversale di diventare ricchi e rimanere ignoranti, possibilmente col piglio criminale. Di questa inversione di desiderio aveva ben scritto Walter Siti nel suo romanzo del 2008 Il contagio, dove, attraverso le vicende di un condominio di borgata ci raccontava di come i proletari non ambiscono più – come Pasolini temeva e viveva – a farsi borghesi, ma viceversa.
Se pensiamo che da lì a poco sarebbero emersi, con inedita moltiplicazione mediatica, i più solari rapper Clementino e Rocco Hunt, viene da pensare che, ancora una volta, Napoli ce la stanno raccontando con le solite abusate lenti deformanti: il mitra e il mandolino.
Le preziose sfumature dei primi due album dei Co’ Sang vanno dunque diluendosi nelle acque torbide di una stupida (auto)esaltazione di mondi pagliaccescamente criminali, mentre, sull’altro versante fa il suo ritorno il napoletano simpatico e giocherellone (anche un po’ fumato, tanto per strizzare l’occhio ai più giovani). Nuovi brani per nuovi rapper cinicamente “sul pezzo”, Candide fuori tempo massimo, ingenuamente speranzosi (è nu juorno buono) nel momento in cui la cosiddetta Terra dei fuochi attrae su di sé tutti i media nazionali. E il groviglio non sarebbe così inestirpabile se il tutto non fosse così mixato e amplificato in un unico immenso calderone dove i guappi-giullari non fanno altro che – con tragica inconsapevolezza – abbagliare e distogliere da qualsivoglia tentativo di andare anche solo un po’ più a fondo nelle cose.
Il rap, che aveva portato una ventata di freschezza dall’America degli oppressi, in definitiva si è lasciato assorbire dal chiacchiericcio globale, facendosi conduttore di una corrente di consumo ad alto voltaggio. Non tutto naturalmente. Restano a portarne alta la bandiera quelli che, come i suoi pionieri, tendono a guardare oltre i confini, facendo sempre un passo in più di quanto la gamba gli consenta, mischiando generi, lavorando in silenzio e con tenacia, probabilmente fregandosene delle etichette che di volta in volta gli vengono affibbiate.
Era già successo anche con un’altra espressione del movimento hip hop, il writing, che da azione sovversiva e para-terroristica (se faccio un graffito su un treno posso anche metterci dentro una bomba) è lentamente scivolato verso i sepolcri imbiancati municipalizzati.
Un milione di punti o nessun punto si diceva, e allora: come rinnovarsi? Come sfuggire alle gabbie? Quali gabbie (la metrica, uno stile, dei colori) facilitano la trasmissione conflittuale? Come sottrarsi di volta in volta allo svilimento delle energie migliori? In definitiva, che fare?

Lo stato della lingua
Hunt vince Sanremo nel 2014 con il brano Nu juorno buono, e sembrerebbe il trionfo della lingua di Napoli. Ma cosa sta succedendo al napoletano in questo ultimo decennio?
Come con la musica (che nel frattempo aveva perso la musicalità dell’imperfezione, essendo ogni nota stata schiarita e raffinata dal suono digitale, salvo poi, da lì a poco, essere risporcata con quel tanto di fruscii che la riesumino dall’obitorio nel quale s’era infilata), anche sul versante delle liriche, ormai in avanzata decomposizione, è stato necessario “sporcare” con un po’ di dialetto la competizione canora più prestigiosa della nazione, come a dare un tocco (o una botta, a dir meglio, come a Napoli chiamiamo i proiettili) di vita (o definitiva morte) e, in rinomato stile italico, cambiare tutto affinché nulla cambi. Giusto una sciacquatina di coscienza, quel tanto che serve all’Italia per dare una rinfrescata al (lievissimo) senso di colpa per un meridione inquinato, mafioso, corrotto, eppure così esotico e attraente.
Dipingendo in strada posso dire di essere un osservatore “privilegiato”, invischiato da una parte con la città alfabetizzata (media e alta) e dall’altra con quella sostanzialmente senza diritti e più esposta alla devianza criminale. Quest’ultima fetta di città – che non è affatto minoranza – pur non essendo ufficialmente descolarizzata ha, di fatto, solo attraversato la scuola, magari lentamente, ma – in sostanza – uscendone con lo stesso semianalfabetismo con il quale ci era entrata, e talvolta dopo una intensa “guerra di liberazione” combattuta a colpi di urla, rapporti, sospensioni da parte degli insegnanti.
Questo stato delle cose è coinciso negli ultimi vent’anni con la diffusione di massa delle nuove (mentre scrivo già vecchie) tecnologie digitali. Internet, ossia “la rete” è cosa ambigua: da ottimisti diremmo che rimanda a una connessione ramificata, da pessimisti a una prigione che ci immobilizza con bagliori perenni. Ovvio che è entrambe le cose e tanto altro. Fatto sta che ci sta cambiando le carte in tavola (sul desktop sarebbe più consono) e, per quanto siamo un po’ tutti sempre in ritardo (Gunter Anders direbbe, a ragione, antiquati), possiamo dire, stringendo, che la città istruita e garantita, seppur a fatica, in qualche modo utilizza e più o meno sa di essere utilizzata dai nuovi media. Gli altri, come fu non molto tempo fa con la televisione, ingoiano. E vomitano. Senza dolori e conati di sorta.
Partendo dalla fine diremmo che sono saltati gli schemi. Ecco, è successo che certe codificazioni linguistiche del napoletano scritto sono crollate nell’ultimo ventennio perché scrivere in napoletano è forse per la prima volta nella storia della città un fenomeno di massa, soprattutto grazie alle chat.
Potremmo fare molti esempi, ricopiando screenshot (i duelli di scherma ormai obsoleti cedono il passo ai colpi di schermo) ampiamente diffusi sulle pagine dei social network, ma ne valgano tre su tutti: Napoli, che da sempre era Napule, ora è Napl. Come siete belle era Comme site belle, mentre ora è M sit bell. Che si fa? si sarebbe scritto Che se fa?, ma oggi è K S FA?.
Neanche a dirlo che il tam tam è continuo. Di telefonino in telefonino, condita di emoticon, viaggia una lingua radicalmente mutata. La velocità che ovunque ha preso il sopravvento soffia sulle parole e, nel giro di pochi anni, ha spazzato via le vocali mute di una scrittura para-francofona per pochi, dirottandoci verso la barbarie (dall’etimo: balbettante) dei molti.
Probabilmente più che una trasformazione in divenire, l’avvento del digitale, ha semplicemente reso “leggibile” una separazione di lungo corso tra la lingua idealizzata di certe canzoni e quella ruvida e affilata della strada (non a caso l’etichetta dei primi dischi dei Co’ Sang, ancora loro, si chiamava Poesia Cruda). Lo notava già Patroni Griffi nell’83 con Cammurriata, dove due personaggi discutendo del loro dialetto dicono:

Io non so’ volgare comme site vuie, io nun parlo lazzero accussì.
Tu parli mezo cazetto.
E che vuol dire mezo cazetto?
È ‘o napulitano ca parlano ’e napulitani pe s’aggrazzià chilli che nun so’ napulitani. È ‘na lengua ruffiana ca niente tene ‘a spartere c’ ’a lengua napulitana, chella verace ca nun te piace pecchè nun’a può parla’. A tazzulella ‘e cafè nun esiste… Esiste ‘o ccafè! Ne vurria ‘nu pucherille, nun se rice, se rice: Ràmmenne ’nu poco. ‘A lengua napulitana è lengua tosta!

Intanto, lo “spettacolo del male” – come ancora su Napoli Monitor alcuni redattori provavano a definire gli effetti della spettacolarizzazione crescente del mondo criminale a uso e (facile) consumo del grande pubblico – ha fatto sì che alcune espressioni, enfatizzate e amplificate poi anche con  parodie da milioni di click (ecco che ritorna la faccia allegra della medaglia), sono diventate letteralmente indicibili, a meno che non si voglia vivere in un gioco di riflessi, campanelli pavloviani che con il loro richiamo rimandano la mente a una serie interminabile di “sonore” sconfitte, culturali prima che civili.
Dunque, in quanto riflesso del tempo che le dà voce, pixel e inchiostro, la lingua napoletana, come tutto il resto, si frammenta, dicendoci con i suoi brandelli e i suoi suoni sempre più gutturali da un lato, e la cadenza sempre più mista a inglesismi dall’altro, di una separazione sempre più marcata tra il “napulegno” e il “napolese”. Il primo è ancora figlio di quella lengua tosta di marca vivianesca, il secondo invece appartiene ai nativi digitali. Questa generazione, a differenza, che so, di un Pino Daniele che mischiava il napoletano all’italiano e all’inglese soprattutto per tendere lo sguardo verso la grande cultura del blues americano sprovincializzando insieme musica e linguaggio, questa generazione, dicevo, l’inglese lo utilizza con la dimestichezza di chi, per l’utilizzo dei propri device, lo ha frequentato dalla più tenera età, e ha imparato – insieme a tanto altro e tanti altri – con processi di apprendimento globali che hanno una matrice molto precisa: la Silicon Valley.
Nella scrittura in rete però un fenomeno emerge con forza, riproponendo il “contagio” di cui parlavamo sopra: gli alfabetizzati in un imbarazzante processo di mimesi scrivono balbettando. Simulano l’ignoranza o, peggio, utilizzano il napoletano come una nota di colore accattivante. Senza mai un atto di conoscenza sincera. L’avevano intuito i soliti Co’ Sang nel loro pezzo manifesto ‘Int’ ‘o rione: “Chi vulesse essere ce fa vede’ quanta complessi tene / copia l’accento de’ case popolari / cu’ ati consonanti, ati vocali”. Ed è emblematico che il testo, come a sottolineare la prevalenza dell’orale sullo scritto, nel libretto del cd è trascritto in italiano, mentre da uno dei tanti siti aggiornati dai fan è scritto così: “Chi vuless esser c fa verè quanti compless ten / copi l’accent re cas popolar / cu ati consonant ati vocal”.
È del 1998 Prrr, brano di 41° parallelo, album d’esordio de La famiglia, primo gruppo rap cittadino a scrivere liriche esclusivamente in napoletano. Sul beat diceva: “Mammà diceva sempe ca parla’ dialetto stritto fa brutto, è nu difetto”, e il ritornello rispondeva con una sonora pernacchia a questa diffusissima raccomandazione materna. Più o meno a partire dagli anni Novanta – ma in certo teatro prima e meglio – si ritratta un’abiura, o per meglio dire, il ceto medio ritratta un’abiura di lungo corso che aveva radici nella generazione del miracolo economico, quella che voleva che i propri figli si emancipassero, laureandosi e facendo carriera, ripudiando quello che da allora in poi sarebbe stato declassato a dialetto, volgare e primitiva peste da scansare. Implosi gli anni Ottanta, e tramontando definitivamente quel sogno di posto fisso ch’era durato trent’anni, anche la middle class partenopea, nel momento di massima apertura alla globalità, andrà a chiudersi in una quanto mai inquietante roccaforte identitaria. E allora il ritornello sarà ripetuto a squarciagola: “Come a Napoli da nessuna parte”.
A guardare bene (quando e se i led accecanti ce lo consentono) le linee di sviluppo, tanto del commercio (con velocità esponenziale nel centro storico) quanto delle “imprese culturali” (il teatro stabile, per esempio), si evince come il prodotto più venduto sia la “tradizione”, vera o presunta; mescolata a una scintillante estetica fatta più di grafica e promozione che di cultura e innovazione: il peggio dello smart a braccetto con un orgoglio campanilista recitato con tanta foga da rendere sempre più indistinguibile lo scarto tra finzione e realtà. Questa pressoché incontestata esaltazione neo-localistica, figlia di chi cerca facili consensi, potrebbe pure andar bene (ma poi perché?) a chi possiede gli strumenti per cercarsi dell’altro, viaggiare, confrontarsi con altre culture, in definitiva per chi sa parlare anche italiano; ma per chi si esprime “balbettando”? Quella fetta di città sarà costretta probabilmente a ripiegare ancor di più su se stessa, non riuscendo mai a vedere oltre l’orizzonte – per altro già ristretto – del proprio vicolo. Privi di difese culturali, consumatori senza reddito, finiranno dinanzi a un bivio: o recitare se stessi – ci aveva visto giusto Montesano in Di questa vita menzognera –, senza nessuna possibilità di emancipazione; oppure rientrare nelle riserve di un hinterland sempre più esteso. Seducenti, eppur abbandonati.
Ritornando alla domanda dell’incipit: mai possibile che per avanzare debba inevitabilmente morire qualcuno? Sì, ancora una volta sarà la risposta. Solo che forse, avanzando, potremmo scegliere cosa perdere e cosa no: selezionando semi(otica), immaginando frutti a venire, coltivando senza colonizzare. La sfida, per gli artisti più consapevoli è, ancora una volta, ragionare sui mezzi che adoperano, sulla loro consistenza, sulle trasformazioni che mettono in atto, anche in termini di neuroscienze, riportando il discorso da un livello accademico fin troppo autoreferenziale a uno più epidermico, di prossimità, che possa in qualche modo insinuare quegli stessi dubbi che finora sono stati il principale carburante della marcia umana. Mi si dirà che la destinazione finale, il caos, l’estinzione, sono cosa ben nota. Ma, suvvia, non è il percorso ciò che conta? Il perdersi su una via che – per nostra fortuna – non è mai retta e facile da percorrere.