Riflessioni segrete

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La carcassa. La prima immagine, forte e ricorrente, il refrain di tutto il film. Penso al buskashi, all’atmosfera che ci dev’essere in quei pazzeschi giochi afghani – che di sportivo non devono aver niente; penso che dev’essere una cosa di questa, ancestrale e tribale: la carcassa oltraggiata, la capra morta e senza testa, l’albero morto, bruciati, sacrificati – il seme del nuovo. Pena per gli alberi di Natale; per la fine impietosa – sembrano donne oltraggiate e uccise, trascinate per i capelli da impietosi guerrieri. I ragazzi non sopportano gli alberi di Natale cui, prima di gettarli nella monnezza, abbiano spezzato la punta o i rami – che cazzimma. Nessuno osi ledere l’integrità della vittima prima del suo sacrificio. Il rito sembra ripetersi senza alcuna consapevolezza da parte di chi lo agisce. I ragazzi del film sono interpreti involontari di un destino registrato da due con la camera, due di loro – due che hanno raggiunto la condizione di osservatori non partecipanti, che sono riusciti a neutralizzare la loro presenza, mimetizzandosi con lo sfondo dei palazzi, della monnezza, delle carcasse, fino a scomparire. I ragazzi erano in sala, a fianco a me, me ne sono accorta subito. E ho guardato il film sentendo il testo dei discorsi registrati nella pellicola e quelli live, provenienti dalla mia sinistra. Un effetto straniante. Con i piedi sui sedili della fila davanti, sulle teste degli spettatori, a parlare, incessantemente, riconoscendosi, riconoscendo ogni luogo, ogni albero – Chist’ è chill’ d’a marina…. Chill’ è d’o Cavone…. T’arricuord…. I’ a chist’ o cunosc…. Parole non pronunciate da attori consapevoli di un ruolo svolto; come sentire parlare persone che si riconoscono in un filmino di famiglia, alla visione di foto proprie. Senza alcun protagonismo, senza alcun distacco tra un sé autentico e un sé recitante.

Ho pensato ai film di Antonio Capuano. Quando vidi il bellissimo e tremendo “Vito e gli altri”, dopo qualche tempo volli rivederlo. Cercai in un videonoleggio e lo trovai, incredibilmente! tra i film di Nino D’angelo. Mi stupii e poi capii. Capii quando lessi che l’altro film di Capuano, “Pianese Nunzio, 15 anni a maggio”, era preso d’assalto, nei cinema, da torme di adolescenti dei Quartieri. Che, saltando a piè pari la dinamica che avrebbe dovuto innescare il film di denuncia, della sua analisi storica e sociologica, dell’opera d’arte, si tuffavano in una serie di vicende talmente contigue con la propria vita quotidiana da non essere nemmeno percepite come un film. Era la loro storia restituita, una specie di reality show, il migliore possibile. I ragazzini seduti a fianco a me, con le scarpe sulle teste degli altri spettatori, provavano forse qualcosa del genere. Nel Il segreto la banda agisce ricordando, in qualche tratto, i ragazzi di Molnar; più spesso, quelli del Signore delle Mosche. Come agiscono questi ragazzini napoletani che preparano ‘o cippo ‘e sant’Antuono? Sono legati da vincoli di solidarietà, di appartenenza – e appartenenza a chi? al gruppo dei coetanei? a quello dei ragazzini drop out, come li definiscono in gergo tecnico quelli che i vari progetti di recupero tentano, faticosamente, di riportare a scuola? condividono forse esperienze intessute di sentimenti morali? o tutto si consuma unicamente nell’immediatezza dell’azione condivisa, nella frenesia del ritmo della raccolta incessante, finalizzata alla scarica finale -avrebbe detto Canetti: il Fuoco? Ho pensato molto a Massa e potere, alle pagine indimenticabili sulla muta. I ragazzi di Molnar erano legati da sentimenti forti, da vincoli di appartenenza in cui l’infanzia e la comunanza di destino offrivano il cemento – quel mastice masticato metafora di altre cementazioni.

Questi ragazzi napoletani del Segreto agiscono piuttosto come una tribù consumata dall’attesa del rito che deve ripetersi, dell’iniziazione necessaria, che deve compiersi ad ogni costo. Non c’è progetto, non c’è preventivo. Il ritmo del film, che, in fondo, è concentrato su un’unica azione che si compie, senza alcuno sviluppo, senza definizione di trame o personaggi, regge, miracolosamente, per quasi due ore pur senza raccontare una storia. Perché partecipa come il suono del tamburo battente all’operazione sciamanica cui assiste – l’occhio della telecamera è come il rumore di fondo, altissimo, che si trasforma, nella scena finale del fuoco, in una musica di tamburi e sassofono. La fotografia è notevole nelle ultime sequenze: colore dominante è quello livido del cielo invernale e dei palazzi scalcinati, dove l’intonaco è solo pallidissima traccia, ormai senza colore. La dimensione geometrica della verticalità domina tutte le scene – dagli sprofondi del pozzo pieno di carcasse di alberi, allo slancio delle scale percorse incessantemente, affannosamente, al totem finale del materiale incendiato, della colonna di fumo che sale, delle panoramiche dal basso sulla città. Senza respiro si arriva alle scene finali in cui il fuoco, che corre sotto traccia in ogni sequenza precedente, sin dalla prima scena, non trasmette alcun effetto liberatorio, catartico – non fa, stranamente, quello che ci si aspettava. Si trasforma quasi subito in una colonna di fumo densissimo, che occupa il vuoto tra le case alte, lo spazio del fotogramma, lo riempie, lo occupa. In basso i ragazzi scatenati, tra i baluginii delle fiamme – che si godono il risultato della fatica, esercitano il compito sacerdotale che gli spetta di diritto; in alto, la spessa coltre che non lascia trasparire niente, che occlude ogni visuale, cancella la scena e, dopo i titoli di coda, alcune sequenze si aggiungono a documentare una demolizione – forse un flash back su come si sia costituito negli anni precedenti lo spazio sacrificale di questo falò di sant’Antuono. Ruspe che fanno crollare mura così decrepite che cadono quasi senza fragore, senza fatica. Come qui sempre accade. La familiarità con la morte, con il crollo, con l’impermanenza, sono forse la cifra vitale più profonda della città di N. Qui a nessuna cosa viene chiesto di rimanere uguale a se stessa, di ostentare durata, di conservarsi. Più che la rinascita, il “cippo” diventa simbolo di un’opera diuturna che affatica ogni cellula di questa enorme carcassa a cielo aperto. Indica forse una direzione – che è quella del lasciare che la distruzione faccia il suo corso; semmai partecipandovi con gioia tribale, periodicamente; indica un assistere all’operare del tempo con la stessa emozione che appartiene alle radici primordiali del genere umano. Radici pre-morali e pre-politiche. Queste, sì, eterne. O quasi. (Paola Nasti, insegnante)